Il fallimento di Lehman Brothers

Come si salveranno? Colpendo il lavoro

di Emiliano Brancaccio

Avevano nei giorni scorsi giustificato il tracollo di Fannie e Freddie con la classica litania dei carrozzoni a partecipazione pubblica, protetti dal governo federale americano e inquinati dalle solite clientele politiche. Poi però la crisi si è nuovamente spostata al centro del capitalismo privato americano, e gli ultras del liberismo sono rimasti per l’ennesima volta a corto di argomenti. Lehman Brothers, una delle quattro banche d’affari più grandi del listino di Wall Street, ieri ha dichiarato fallimento. Cade dunque un altro importantissimo mattone dell’immenso domino finanziario globale, e c’è da ritenere che diversi altri nei prossimi mesi subiranno una fine analoga.
Lehman rappresenta una delle massime interpreti del famigerato “subprime capitalism”, vale a dire il sistema che nel corso degli ultimi anni ha stravolto e reinventato il circuito monetario dei crediti, dando luogo a quella che potremmo considerare una sofisticata istituzionalizzazione del meccanismo dell’usura. La logica dei subprime ha infatti per lungo tempo funzionato così. Prendi un lavoratore americano, di norma residente in un sobborgo periferico e già abbastanza carico di debiti e di pignoramenti. Fregatene della sua elevata probabilità di insolvenza e offrigli mutui e carte di credito a tassi particolarmente alti. Quindi spezzetta in mille parti i debiti del tizio in questione, trasformali in titoli e diffondili in ogni angolo del globo, con il prestigioso marchio della banca d’affari emittente posto in bella mostra sulle cedole. Strozza finché puoi il lavoratore, fallo andare sulla giostra dei tassi variabili, costringilo a doppi turni, tripli lavori e tagli progressivi al suo tenore di vita. Distribuisci i dividendi ai possessori dei titoli e poi, quando il tizio andrà in bancarotta, poco male: che si faccia avanti il prossimo working poor afflitto da un salario reale in caduta libera fin dai tempi di Carter.
Applicando questa procedura le grandi banche d’affari americane hanno convinto migliaia di operatori finanziari a comprare questi titoli, al tempo stesso bollenti e patinati. Fondi cinesi, russi, giapponesi e pure tanti istituti europei hanno fatto incetta di subprime, rassicurati dall’idea che un pezzettino di rischio per ciascuno non avrebbe fatto male a nessuno. Ma le cose non stavano così. Lo strozzinaggio su larga scala aveva le sue crepe, che si sono trasformate in voragini man mano che i pezzetti di rischio andavano cumulandosi, che i potenziali lavoratori da incravattare andavano esaurendosi, e che le garanzie poste alla base di quei debiti cominciavano a perdere di valore. Il risultato finale è che i massimi finanzieri di Wall Street potrebbero a questo punto esser seduti su una montagna di crediti che valgono carta straccia. E non si capisce chi pagherà adesso la corrispondente montagna di debiti che essi hanno contratto con il mondo. Una situazione, questa, che avrà inevitabili effetti a catena: basti pensare ai contratti di copertura del rischio di cambio che il Ministero del Tesoro italiano ha lungamente contratto con Lehman per la collocazione di titoli pubblici sulla piazza americana, e che ora rischiano di non poter essere onorati.
Siamo insomma di fronte alla ennesima, contraddittoria torsione del capitalismo deflattivo del nostro secolo. Da tempo questo sistema impone a tutti i paesi del mondo una politica di schiacciamento dei salari e della domanda interna, e li costringe a cercare sbocchi commerciali all’esterno dei propri confini. Gli Stati Uniti hanno agito per anni da spugna assorbente, domandando ben al di là di quel che potevano acquistare. E questo non certo in virtù di una politica di alti salari, ma al contrario grazie a una spaventosa esplosione di spese finanziate con debiti, che negli ultimi tempi hanno coinvolto anche e soprattutto la classe lavoratrice. Con il diffondersi delle insolvenze tra i lavoratori il sistema è andato in stallo, e adesso si prevedono due diverse vie d’uscita. La prima è quella “capitalistica pura”: si lasciano le banche al proprio destino, le più fragili ed esposte falliranno o verranno assorbite, e assisteremo a una ulteriore accelerazione del processo in corso di centralizzazione dei capitali mondiali in poche mani. Questa soluzione trova però un ostacolo nel fatto che gli assetti proprietari e di controllo del capitale finirebbero per subire un vero e proprio terremoto. Per esempio, la finanza asiatica sembra esser tra le poche attualmente in grado di ricapitalizzare gli istituti bancari, soprattutto americani ma in parte anche europei. Non sarebbe certo la prima volta, beninteso, ma in questa occasione l’intervento necessario ai salvataggi potrebbe rivelarsi di tali proporzioni da rendere inevitabile l’ingresso dei cinesi nelle stanze dei bottoni di Wall Street e della City, dalle quali sono stati finora tenuti accuratamente alla larga. Ecco allora che alcuni guru della finanza statunitense ed europea iniziano a levare alte le voci sul pericolo di una recessione globale, e sul rischio conseguente di una reazione neo-protezionista. La diffusione di queste paure verte su un preciso obiettivo strategico: spianare la strada a una soluzione “assistita”, ossia basata su un intervento pubblico che permetta di scaricare sui contribuenti occidentali il peso dei rifinanziamenti bancari e che eviti eccessivi scossoni negli assetti di controllo. Quello che suscita maggiori preoccupazioni, comunque, è che in entrambi i casi il sistema scaricherebbe il peso dell’aggiustamento sulle spalle dei lavoratori e delle categorie sociali più deboli: o attraverso la recessione e la disoccupazione, o tramite un aumento dei carichi fiscali sul lavoro e delle iniezioni di liquidità pubblica a sostegno del capitale privato in crisi, oppure ancora attraverso una combinazione intermedia delle due soluzioni. Nella storica emergenza in atto, insomma, i lavoratori restano al tempo stesso la variabile residuale per eccellenza, pressata sul piano economico e silente sul piano politico. Un paradosso, questo, dal quale non si uscirà né a breve né in modo necessariamente pacifico.

Manifesto del Partito Comunista

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